Manuela Iona Iscrizione Ordine degli Psicologi Liguri n. 522.
Manuela IonaIscrizione Ordine degli Psicologi Liguri n. 522.

Psicoterapia

"L'idea fondamentale è un modo di concepire la psicoanalisi come incontro tra due persone che si impegnano in una relazione dalla quale si attendono sviluppi creativi"(A. Robutti in: "L'esperienza condivisa" di L. Nissim Momigliano, A. Robutti ed. Raffaello Cortina Editore).



"La relazione analitica appare come incontro tra due persone che cercano di capirsi utilizzando la loro comune sostanza emotiva" (Di Chiara)



"L'analista in molti casi sostituisce le influenze ambientali patologiche."(Winnicott 1962)



Psicoterapia di Sosegno

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PsicoTerapia Analitica

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PsicoTerapia di Gruppo

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Un colloquio con lo psicologo può essere il chiarimento di un dubbio o anche l'inizio di un percorso verso la coscienza di voi stessi che vi recherà benessere.

" Mi sono svegliata stamattina con un indistinto malessere", dice all'inizio di una seduta una paziente. Mi sono subito affacciata alla finestra per controllare se mi avevano rubato la macchina, sa, come quando ci si aspetta di tutto.."

 

All'analista il compito di accettare e poi decifrare la peculiarità dell'angoscia che gli viene dai suoi pazienti. Ciò che per loro costituisce un blocco nel capire, anche per l'analista costituirà un impedimento finchè non si realizzeranno alcuni precisi processi.

 

"L'unica emozione che riesco davvero a vivere, dice un paziente ipocondriaco, è la sensazione di essere malato.."

 

L'analista deve poter trasmettere agli analizzandi pensieri pieni di speranza. Per realizzare questo vertice di ascolto non è sufficiente la capacità di identificarsi con l'altro. C'è un'ispirazione che deriva all'analista dall'aiuto ricevuto dalla propria analisi personale, dai propri maestri, dai propri genitori, e da questa fonte deriva la competenza a provare simpatia e identificarsi; ma vi è un altro successivo percorso che ha luogo quando si entra nel rapporto peculiare e unico della relazione con l'analizzando e che concerne la possibilità di cercare insieme qualcosa che non si è mai incontrato prima. Questa seconda via implica la rinuncia al modo di pensare che ci aveva accompagnato sino a quel momento per scoprirne un altro che è incognito ed era impensabile sino ad allora.

Mi sembra importante ricordare che, al di là della disperazione, c'è nelle persone una sete inestinguibile di essere capiti in qualcosa a cui nessuno presta attenzione, che è tutt' uno col sentimento di sè (Harris)

 

Il racconto analitico è una forma particolare di narrativa.

Esso è presente nell'analisi fin dalle sue origini: cura di parole, chiacchiere vicino al camino. Fin dal principio l'analisi è un intreccio di episodi narrativi, della vita, dell'infanzia, dei sogni, delle fiabe e dei miti.. Per la sua realizzazione è) indispensabile che il linguaggio corrisponda al "linguaggio della affettività di Bion (1970 ).  Anche nell'opera freudiana si riscontrano due livelli di narrazione: un livello che articola gli affetti con le rappresentazioni rimosse; e un altro che costruisce una nuova storia attraverso la capacità relazionale in analisi. I due livelli devono interagire dinamicamente.

(liberamente tratto da"L'esperienza condivisa- Saggi sulla relazione psicoanalitica" a cura di L. Nissim Momigliano A. Robutti. Ed. Cortina)

 

 

 "Non mi passerebbe neanche per la testa di iscrivermi a un club che sia disposto ad accettare tra i suoi membri uno come me." (Groucho Marx)

 

È proibito

È proibito
piangere senza imparare,
svegliarti la mattina senza sapere che fare
avere paura dei tuoi ricordi.
È proibito non sorridere ai problemi,
non lottare per quello in cui credi
e desistere, per paura.
Non cercare di trasformare i tuoi sogni in realta'.
È proibito non dimostrare il tuo amore,
fare pagare agli altri i tuoi malumori.
È proibito abbandonare i tuoi amici,
non cercare di comprendere coloro che ti stanno accanto
e chiamarli solo quando ne hai bisogno.
È proibito non essere te stesso davanti alla gente,
fingere davanti alle persone che non ti interessano,
essere gentile solo con chi si ricorda di te,
dimenticare tutti coloro che ti amano.
È proibito non fare le cose per te stesso,
avere paura della vita e dei suoi compromessi,
non vivere ogni giorno come se fosse il tuo ultimo respiro.
È proibito sentire la mancanza di qualcuno senza gioire,
dimenticare i suoi occhi e le sue risate
solo perche' le vostre strade hanno smesso di abbracciarsi.
Dimenticare il passato e farlo scontare al presente.
È proibito non cercare di comprendere le persone,
pensare che le loro vite valgono meno della tua,
non credere che ciascuno tiene il proprio cammino
nelle proprie mani.
È proibito non creare la tua storia,
non avere neanche un momento per la gente che ha bisogno di te,
non comprendere che cio' che la vita ti dona,
allo stesso modo te lo puo' togliere.
È proibito non cercare la tua felicita',
non vivere la tua vita pensando positivo,
non pensare che possiamo solo migliorare,
non sentire che, senza di te,
questo mondo non sarebbe lo stesso.
non sentire che, senza di te, questo mondo non sarebbe lo stesso.

 

Pablo Neruda

hi e' Carla Ricci Sono una antropologa, laureata all'Università di Bologna. Vivo attualmente in Giappone dove, presso il Dipartimento di Psicologia Clinica dell'Università di Tokyo, svolga la mia attività di ricerca. Il mio non può essere definito un clas

Chi e' Carla Ricci

Sono una antropologa, laureata all'Università di Bologna. Vivo attualmente in Giappone dove, presso il Dipartimento di Psicologia Clinica dell'Università di Tokyo, svolga la mia attività di ricerca.
Il mio non può essere definito un classico percorso accademico. Questo perché, prima di dedicarmi
all' antropologia, ho svolto per molti anni attività di imprenditrice; un impegno sostenuto con passione che mi ha portato a viaggiare in tutto il mondo e ad affinare il mio interesse, sempre presente fin da bambina, nella osservazione di quel mondo e dei suoi abitanti.

Successivamente, è generata in me l'esigenza di radicale cambiamento che mi consentisse di dedicarmi esclusivamente alla ricerca e, per molti eventi accaduti, ho compreso che l'unico luogo dove questo poteva avvenire era in Giappone. La realizzazione di questo progetto è stata complessa ma sta offrendo preziosi frutti, poiché il Giappone si è effettivamente rivelato un luogo straordinariamente idoneo per intraprendere ciò che amo definire una riflessiva e fruttuosa sperimentazione.

La conoscenza della lingua giapponese e la mia ininterrotta ricerca di campo che ritengo di sostenere con passione ed anche con innata capacità empatica, mi hanno consentito di penetrare nella complessità del mondo Hikikomori che, salvo poche eccezioni, finora è stato affrontato solo da studiosi giapponesi.

Credo profondamente che una osservazione culturalmente distaccata possa generare innovativi suggerimenti di riflessione non soltanto nel luogo dove quel certo fenomeno ha preso forma, ma anche al di fuori dai suoi confini. Un esempio è visibile proprio in Italia dove, in seguito alla pubblicazione del mio primo libro, sono stati documentati per la prima volta molti casi di giovani Hikikomori italiani, modificando così l'opinione comune che tale fenomeno fosse a noi completamente estraneo.

Il percorso di ricerca che sto compiendo, che ho definito Antropologia del Sé, è solo agli inizi. Il tentare di fare luce su quel ”Buio del Cuore” che invade coloro che si ritirano in Hikikomori, è infatti solo un primo passo che vuol condurre oltre ai confini di quel fenomeno, verso cioè una riflessiva osservazione di noi, uomini confusi, perché completamente sconosciuti a noi stessi.

 

Il Sé come spirito del luogo. Una lettura di Jung e Bollas Vittorio Lingiardi, Milano

 

 Al centro di ciascuna persona, c'è un elemento segregato, e questo è sacro ed estremamente degno di essere preservato. Donaid Winnicott, Comunicare e non comunicare: studi su alcuni opposti

 

Sergio Bordi (1989), «Psicoanalisi e nascita del Sé», in Massimo Ammaniti (a cu

ra di), La nascita del Sé, RomaBari, Laterza, 1989, pp. 138- 148. (2)

 

 Per Jung il è un archetipo, in cui si integrano gli aspetti consci e inconsci, che personifica l'aspirazione per la totalità e l'unità, raggiungibile solo nella seconda metà della vita, quando le varie parti della personalità si sono pienamente sviluppate. Freud non esplicita compiutamente il concetto di Sé. Nel concetto di lo coesiste infatti l'istanza psichica della mente, ma anche la dimensione soggettiva che vive direttamente l'esperienza. Nell' Introduzione al narcisismo (1914, Torino, Boringhieri, 1989, p. 468), Freud scrive: «il sentimento di sé ci appare un modo di esprimere l'ampiezza dell'Io, indipendentemente dagli elementi Dopo la «rigogliosa stagione dell'introspezionismo», spazzata via dalla «purga comportamentistica» (1), il termine Sé, incandescente nell'opera di Jung e più fioco in quella di Freud (2), è ancora al centro della psicoanalisi. Mentre sulla concezione strutturale della mente, basata sulla tripartizione Es/lo/Super-lo, vi è un accordo, almeno lessicale, tra le varie scuole, lo stesso non si può dire per il concetto di Sé (Self, Selbst), che rimane avvolto da un'aura di segreto e ambiguità, peraltro teorizzata da autori come Winnicott, Khan e Kohut (3). La portata del dibattito sul Sé, fondamentale per le sue ripercussioni sul piano della clinica, è tale da chiamare a raccolta molte discipline e correnti di pensiero. Ne cito alcune: la fenomenologia, la psicoanalisi interpersonale e relazionale, la psicologia evolutiva, la psicolinguistica, la psicologia del Sé kohutiana, le teorie evoluzionistiche, gli studi post-bowlbiani sull'attaccamento, gli studi sul trauma e la dissociazione, i modelli biogenetici, immunologici e neurobiologici, le teorie sulla personalità e sui disturbi di personalità (4). Infine, l'indirizzo postmoderno della psicoanalisi, favorevole a un approccio inclusivo e nomadico, pone la questione non già di un Sé unico, ma di una molteplicità di Sé, di un Sé decentrato, disunificato e dialogico e non centrale e coeso (5). Si può dire che l'aspetto più interessante del dibattito psicoanalitico contemporaneo sul Sé riguarda proprio la tensione creativa tra la raffigurazione del Sé come multiplo e discontinuo e quella del Sé come unico e continuo. Una concezione del Sé in termini narrativi, o più propriamente di un Sé dialogico (6), può essere ulteriormente sviluppata riferendosi al lavoro del critico russo Michail Bachtin, e in particolare alla nozione di romanzo polifonico descritta nei saggi su Dostoevskij (7).

Un'esasperante semplicità

II Self può pretendere di essere tutto tranne che self-evident (8). È una struttura della mente analoga ad altre istanze psichiche? La totalità psicobiologica dell'individuo? La dimensione soggettiva dell'esperienza? La somma delle rappresentazioni interne? O piuttosto è qualcosa di riconducibile a un suggestivo isomorfismo tra tutte queste ipotesi interpretative (che è anche un modo per evitare l'implacabilità delle definizioni)? Oppure, più teleologicamente, è la figura che incarna il senso del nostro destino, del compimento psicobiologico di ciò che siamo? Parlare del Sé, come di tutti i concetti autologici, produce paradossi e richiede metalinguaggi (9). «Consideriamo esauriente la parola 'Sé' [Self], perché sfugge a una definizione precisa pur continuando a essere la parola migliore. Malgrado l'uso eccessivo che se ne fa, la parola 'Sé' coglie la profondità del sentire, ma solo quando la si collega, nell'inconscio, a un'area di designazione che abbia accesso diretto al nucleo dell'essere e dell'esistenza. È questo che accorda alla parola quella sua semplicità assoluta e un po' esasperante. Le lingue diverse dall'inglese non sempre hanno una parola che rappresenti questa relazione (tra la logica profonda, imperscrutabile, ma informativa, del nostro essere e il semplice oggetto che percepiamo e di cui diciamo: 'Ah sì! Si tratta di me!'), una parola che designi il punto di incontro tra quanto è conosciuto che la costituiscono. Tutto ciò che un individuo possiede o acquisisce, ogni residuo del primitivo sentimento di onnipotenza che l'esperienza corrobora in lui, contribuisce a esaltare il suo sentimento di sé».

Sarà Hartmann (1950) a proporre una prima distinzione chiarificatrice tra l'Io (istanza psichica e sottostruttura della personalità), il Sé (l'intera persona, ossia il suo corpo, la sua organizzazione psichica e le sue parti) e le rappresentazioni del Sé (rappresentazioni endopsichiche inconsce, preconsce e consce del sé corporeo e mentale nel sistema dell'Io). (3) «La mia ricerca» - scrive Heinz Kohut (1977), La guarigione del Sé, Torino, Boringhieri, 1980 - «contiene centinaia di pagine che trattano la psicologia del Sé - tuttavia non attribuisce un significato definitivo al termine Sé, non spiega mai come dovrebbe essere definita l'essenza del Sé... il Sé come centro dell'universo psicologico individuale è come tutta la realtà... inconoscibile nella sua essenza». (4) Una precisazione: la nozione di personalità, diversamente da quella di Sé, ha caratteri pregiudizialmente oggettivabili e misurabili. Essa tende a designare quelle modalità strutturate di pensiero, sentimento e comportamento che caratterizzano il tipo di adattamento e lo stile di vita di un soggetto e che risultano dall'insieme dei fattori costituzionali, dello sviluppo e dell'esperienza sociale. Vittorio Lingiardi (1996), / disturbi della personalità, Milano, II Saggiatore, p. 116. (5) Si veda a questo proposito il voi. 32, n. 4, della rivista Contemporary Psychoanalys/s(1996). (6) «II Sé dialogico può essere visto come una molteplicità di posizioni dell'Io o di Sé possibili. La differenza tuttavia è 77 che viene assunto che i Sé possibili (per esempio ciò che uno desidererebbe essere o da cui potrebbe essere spaventato o che potrebbe diventare) costituiscano parte di un concetto del Sé multisfaccettato con un lo in posizione centralizzata, laddove il Sé dialogico ha il carattere di una narrazione polifonica, decentralizzata, con una molteplicità di posizioni dell'Io. Questa scena di relazioni dialogiche intende opporsi agli affilati confini tra Sé e non-Sé tracciati dal pensiero razionalistico occidentale». Hubert J. M. Hermans, Harry J. G. Kempen, Rens J. P. van Loon (1996), «II sé dialogico. Oltre individualismo e razionalismo», Psicoterapia, 5, pp. 43- 66. Vedi anche H. Markus, P. Nurius (1986), «Possible Selves», American Psychologist, 41, pp. 954-969. (7) Michail Bachtin (1929), Dostoevskij, Torino, Einaudi, 1968. (8) Jerome Bruner (1983), Autobiografia, Roma, Armando Editore, 1984. (9) Sergio Bordi (1989), «Psicoanalisi e nascita del Sé», op. cit, p. 139. (10) Christopher Bollas (1995), Craking Up. Il lavoro dell'inconscio, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1996, p. 133. (11) Paul Ricoeur(1986), «II 'Self secondo la psicoanalisi e la filosofia fenomenologica», Metaxù, 2, pp. 7-31. (12) Stephen Mitchell (1993), Speranza e timore in psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 44-45. senza essere pensato e il più semplice dei pensieri, uno spazio dove sembra proprio che noi viviamo la nostra vita» (10).

 

 Stare nell'incertezza

 L'ascolto analitico degli stati del Sé si prefigge la facilitazione espressiva delle potenzialità autentiche del soggetto, più che l'organizzazione delle sue capacità adattive. Ne troviamo un'applicazione evidente nella psicologia kohutiana, che considera «il conflitto che si annoda attorno alle pulsioni sessuali, dalla seduzione all'aggressione, e dal quale emerge la formazione dei love-objects, meno profondo di quello che colpisce i rapporti primitivi tra il self e i self-objects. Heinz Kohut intende per self non già un apparato psichico costituito da molteplici istanze collegate per mezzo di meccanismi, bensì una vita psichica indivisibile, accessibile alla sola empatia, vale a dire a una sorta di introspezione vicaria attraverso la quale un self si trasporta all'interno di un altro self» (11). Il riconoscimento del primato dei disturbi della coerenza del Sé sui conflitti pulsionali rappresenta una rivoluzione della teoria psicoanalitica. Ne troviamo i segni nell'opera degli autori che più hanno influenzato il pensiero psicoanalitico contemporaneo: Winnicott, Bion, Kohut e Lacan e, in anni recenti, Loewald, Ogden, Jessica Benjamin e Bollas. «Ognuno di questi autori ha, a suo modo, riformulato radicalmente l'essenza della psicoanalisi, dalla cura freudiana consistente nel mettere a nudo, saper controllare e poi abbandonare i desideri infantili a un progetto di concezione più ampia che implica un recupero e una rivitalizzazione dell'esperienza di sé del paziente, la guarigione della sua soggettività disturbata» (12). La pratica della psicoanalisi non è più solo la costruzione di un percorso «maturativo», bensì la narrazione, o meglio la conarrazione, delle condizioni, delle preferenze e delle credenze entro cui si sviluppa la conoscenza intersoggettiva dei Sé. L'intento è quello di raggiungere una verità narrativa che permetta al paziente di organizzare la propria esperienza, in un modo che sia plausibile e coerente, ma anche sufficientemente elastico e aperto all'imprevedibile come il 78 mondo che ci circonda. Un processo che Sergio Bordi ha chiamato «apprendere a stare nell'incertezza» (13). Incertezza che riguarda anche il senso della propria autenticità (di paziente e di analista), e che dovrebbe spingerci a considerare con una certa cautela le versioni romantiche o commerciali di grandi intuizioni psicoanalitiche come il vero Sé di Winnicott, l'empatia di Kohut, l'individuazione junghiana o la genitalità freudiana: «secondo i taoisti, proporsi di trovare l'illuminazione è come inseguire un ladro nascosto nella foresta picchiando forte su un tamburo. Proporsi di trovare il proprio vero Sé o cercare di aggrapparsi al proprio vero Sé comporta problemi analoghi. La turbinosa fluidità dell'esperienza umana attraverso il tempo rende l'autenticità essenzialmente e necessariamente ambigua. L'attrazione e l'inseguimento di quell'ambiguità sono al centro del processo psicoanalitico» (14).

Il nucleo del Sé

 Quando penso al Sé, o, come direbbe Bollas, quando penso al «Sé come rapporto oggettuale» (15), mi domando se esiste un Sé preesistente a se stesso, qualcosa come un vero Sé winnicottiano o, alla Kohut, un centro primario dell'universo psicologico, che a seconda dell'ambiente che incontra può esprimersi in modo più o meno «autentico», oppure se il Sé è un frutto esclusivamente relazionale privo di precursori. Affermazione, quest'ultima, in linea col pensiero della Chodorow quando scrive che «il nucleo centrale del Sé è, internamente, un lo relazionale, un senso del Sé in buona relazione» (16). L'ipotesi relazionale è suggerita anche da Mitchell: «in quasi tutte le teorie relazionali... si assume che il Sé non possa esistere isolato. La capacità stessa di avere delle esperienze si sviluppa necessariamente entro una matrice interpersonale, e l'organizzazione, il modellamento di tutte le esperienze è un prodotto estremamente complesso delle interazioni fra il neonato (con le sue sensibilità e le sue soglie temperamentali) e gli stili semiotici e interattivi delle sue figure di accudimento. Non vi è esperienza che non sia soggetta alla mediazione interpersonale. I significati generati dal Sé sono tutti prodotti dell'interazione». Ma (13) Sergio Bordi (1996), Seminar! milanesi, Quaderni del Centro milanese di Psicoanalisi Cesare Musatti, 1, p. 24. Vedi anche Vittorio Lingiardi (1997), Compagni d'amore, Milano, Raffaello Cortina Editore, pp. 20-21. (14) Stephen Mitchell (1993), Speranza e timore in psicoanalisi, op. cit., p. 163. (15) «Per Sé si intende una serie di rapporti intrasoggettivi che si ripetono nel corso della vita e danno il senso della presenza nel corso del tempo. La frase 'Sé come rapporto oggettuale' è quindi adatta nella sua ambiguità, dato che può fare riferimento sia al rapporto specifico con il Sé come oggetto sia al Sé come rapporto oggettuale, o inevitabilmente a entrambe le idee». Christopher Bollas (1987), L'ombra dell'oggetto. Psicoanalisi del conosciuto non pensato, Roma, Boria, 1989,p.57. (16) Nancy Chodorow (1980), «Gender, Relation, and Diffe-rence in Psychoanalytic Perspective», in Claudia Zanardi (1990), Essential Papers on thè Psychology of Women, New York University Press, NY,p.127. 79 (17) Stephen Mitchell (1993), Speranza e timore in psicoanalisi, op. cit., pp. 137-138. (18) Harry Guntrip (1971), Psychoanalytic Theory, Therapy and the Self, New York, Basic Books. anche Mitchell non rinuncia a chiedersi: «dov'è il centro, il cuore, il nucleo della persona in questa prospettiva? Come possiamo individuare una zona nel Sé dove si potrebbe pensare che cominci o risieda l'individuo in quanto individuo? Con l'attenzione all'attaccamento, alle relazioni inter-personali, alle identificazioni e così via, come può la psicoanalisi non diventare una forma di sociologia o di teoria dell'apprendimento sociale in cui l'individuo è considerato un prodotto dell'ambiente sociale? Se non esistono pulsioni radicate nel biologico che rappresentano la 'natura' nel nucleo intrapsichico della persona, come può la psicoanalisi conservare la sua eredità più importante e preziosa come strumento d'indagine nelle profondità dell'esperienza umana? La distinzione tra il vero e il falso Sé... tra gli adattamenti conformistici e quelli più autenticamente personali... sono distinzioni cruciali per l'impresa psicoanalitica, e sembrano richiedere una localizzazione del nucleo o centro del Sé da usare come punto di riferimento» (17). Antica questione, quella del «nucleo del Sé» - un «Sé puro»! - che ciascuno ha affrontato a modo suo. Guntrip, per esempio, l'ha risolta in un modo romanticamente innatista: «alla sua nascita il neonato contiene un nucleo di unicità che non è mai esistito prima. Spetta ai genitori la responsabilità non tanto di plasmarlo, di adattarlo a un modello o di condizionarlo, quanto di sostenerlo in modo tale che la sua unicità preziosa e nascosta possa emergere e orientare tutto il suo sviluppo» (18). Schafer, e più tardi Ogden, hanno r einterpretato il concetto freudiano di pulsione dall'ottica energetica a quella cognitiva e linguistica. Kohut ha parlato di un destino programmato, Winnicott dell'onnipotenza creativa del Sé. In molti, oggi, rispolverano il concetto di temperamento. I relazionali invitano a una certa cautela: «Ogni autore vuole sezionare il contenuto del Sé, dividere la torta in settori socialmente negoziati e in qualcos'altro che esiste prima dell'interazione sociale e che può essere considerato il nucleo del Sé. Questo approccio è strettamente collegato a una concezione lineare dello sviluppo e degli arresti di sviluppo. Si suppone che il neonato inizi la vita con un Sé completo o integro, almeno potenzialmente... Si può inquadrare questo approccio evolutivo dicendo che il Sé del futuro bambino 80 esiste in potenza nel neonato ed è intuito e rispecchiato dalla madre. Non ho obiezioni se ciò significa che il bambino ha molte potenzialità rispetto allo sviluppo del Sé e che la potenzialità intuita dalla madre è in parte un riflesso della soggettività di lei. Il padre, dopo tutto, è molto probabile che abbia l'intuizione di un bambino potenziale assolutamente diverso. Anzi, proprio perché il bambino della madre è un po' diverso dal bambino del padre, è così universale il conflitto tra le diverse organizzazioni del Sé. Perciò, dire che il nucleo del Sé esiste in potenza non risolve il problema. O esso esiste in forma già organizzata e si dispiega in un ambiente ricettivo - cosa che trovo poco plausibile - oppure le differenze temperamentali non organizzate vengono organizzate e selezionate attraverso l'interazione con le figure di accudimento» (19). Forse ha ragione Masud Kahn quando dice che il vero Sé è un ideale concettuale, conosciuto concretamente soprattutto in virtù della sua assenza (20).

Scegliere un Sé

 II mio Sé opera anche quando esprime una preferenza per questa o quella teoria esplicativa. Considero le ipotesi che mi sembrano più convincenti, quelle che meglio rispecchiano la storia del mio sviluppo psichico, quelle di cui colgo una bellezza che mi affascina, e quelle che non mi piacciono, ma mi sembra sbagliato escludere. Finalmente arrivo a decidere che ora il mio punto di vista sul Sé comprende: 1) i presupposti biologici dell'incontro tra individuo e ambiente; 2) la matrice relazionale dello sviluppo del Sé; 3) l'idea junghiana, parzialmente modificata, di individuazione. Ne deriva un modello - della formazione, del mantenimento e dei mutamenti del Sé - che definirei temperamentale, intersoggettivo, individuativo. Immagino di rispondere alla domanda: «Che cos'è quella cosa chiamata Sé?». Allora porrei il concetto di Sé lungo un continuum che a un estremo implica l'osservazione della nascita del Sé nel bambino (Sé esperienziale) e all'altro l'affermazione della sua esistenza come «cosa in sé» dotata di funzione (Sé strutturale). Ne derivano un polo soggettivo-esperienziale, cioè una rappresentazione (19) Stephen Mitchell (1993), Speranza e timore in psicoanalisi, op. cit., pp. 141-142. (20) Masud Kahn (1972), «Scoperta e divenire del Sé», in Lo spazio privato del Sé, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 282- 292. 81 (21) «II concetto di Sé rappresenta un punto di crisi del modello strutturale tripartito, che infatti Freud aveva pensato senza il Sé. L'accettazione del Sé come struttura distinta dall'Io... comporta difatti una rottura dell'organizzazione del modello, che da tripartito diventa quadripartito oppure viene del tutto abbandonato». Stefano Fissi (1995), «II labirinto del Sé», Atque, 11, pp. 115-136. (22) Donaid N. Stern (1985), // mondo interpersonale del bambino, Torino, Bollati Boringhieri, 1987. Per Stern, il Sé non è una facoltà ma un processo del quale possiamo studiare le tappe. Egli descrive cinque sensi del Sé, ognuno dei quali definisce un campo di esperienza soggettiva e di rapporto sociale. Il senso di un Sé emergente o «corporeo» si forma tra la nascita e i 2 mesi. Il senso di un Sé nucleare si forma tra i 2 e i 6 mesi. Il senso di un Sé soggettivo si forma tra i 7 e i 15 mesi, successivamente si sviluppa il senso di un Sé verbale o categoriale, e quindi un Sé narrativo, tra i 3 e i 5 anni. Una volta formatesi, ogni senso del Sé si mantiene funzionante e attivo per tutta la vita. Tutti e quattro continuano a svilupparsi e a coesistere. Stem delineò anche quattro caratteristiche essenziali del senso di Sé: coerenza, affettività, attività, continuità (o storicità). (23)James Hillman (1997), Thè Soul's Code. In Search of Character and Calling, New York, Random House. Hillman, sfiorando il rischio di un individualismo vitalista, si scaglia contro la nozione di self, dilatata fino a proporzioni titaniche nel linguaggio quotidiano, e propone un ritorno al concetto di daimon, «che ciascuno di noi riceve come del vissuto di sé, e un polo oggettivo--funzionale. Lo spartiacque sta nell'accogliere il Sé come rappresentazione o come struttura (21). In alcuni casi il pensiero degli autori è molto chiaro. Hartmann, ma, nonostante l'adozione di una diversa epistemologia, anche Stern, Sander e Emde, si muovono sicuramente attorno al polo esperienziaie (22). Jung, Guntrip, e più recentemente Hillman (con la sua acorn theory, la teoria della ghianda) (23), attorno a quello strutturale. La maggior parte degli autori (per esempio Winnicott e Kohut, ma ancora Jung) si sottraggono al riferimento esclusivo a uno dei due orientamenti. Come interpretare l'affermazione di Winnicott per cui il vero Sé rappresenta il «potenziale innato, che sperimenta una continuità di essere e acquisisce, in una maniera e con una rapidità tutte sue, una realtà psichica personale e un personale schema corporeo» (24)? E che dire di Kohut quando trasforma la sua visione del Sé da quella di «rappresentazione di Sé» a quella di un «Sé sovraordinato, costellazione psichica primaria, centro dell'esperienza e dell'iniziativa e principale istanza motivazionale» (25)? Lo stesso Jung - per il quale il «Sé è un puro e semplice concetto-limite, pressapoco come la cosa in Sé kantiana» - scrive: «Con un'interpreta-zione materialistica, potremmo facilmente dire che il centro non è 'nient'altro che' quel punto dove la psiche diventa inconoscibile poiché è lì che si fonde col corpo. Con un'interpretazione spiritualistica, invece, si potrebbe dire che questo Sé non è 'nient'altro che' lo 'spirito' che vivifica l'anima e il corpo e che irrompe in quel punto creatore nello spazio e nel tempo» (26).

Jung e Bollas

 Chiarendo finalmente il titolo scelto per questo articolo, mi dedico all'esplorazione del campo del Sé nell'opera di due autori, Jung e Bollas (27), che, pur all'interno di tradizioni diverse, presentano a mio parere interessanti punti di contatto. Che cosa intende Jung quando definisce il Sé V archetipo della totalità? Perché, per Bollas, è dall'idioma che si forma il Sé? In un articolo di una quindicina di anni fa, Mario Jacoby 82 metteva a confronto, con uno spirito paragonabile a quello che ha ispirato queste mie osservazioni su Jung e Bollas, alcune posizioni di Jung e Kohut sul tema del narcisismo. Più recentemente, Mara Sidoli e Verena Kast hanno proposto alcune somiglianze tra la concezione junghiana dei complessi e i risultati dell’infant research, in particolare le cosiddette RIGs (Representations of interactions that have been generalized) di Daniel Stern (28). Jacoby, Kast e Sidoli mostrano non solo che nelle più originali formulazioni della psicoanalisi contemporanea sono presenti intuizioni che furono già di Jung, ma anche che buona parte del lavoro di molti post-freudiani consiste nello sviluppare temi lasciati in sospeso da Freud: temi già segnalati da Jung ma che, forse per l'impianto impossibile della sua opera, tornano oggi non come elaborazioni del pensiero junghiano, ma come correzioni di quello freudiano. Questo fenomeno va letto non dal punto di vista di una lagnosa rivendicazione dell'originalità junghiana o di un vittimistico «non citano Jung» (Jung è poco citato perché è poco letto, e sul perché è poco letto si possono fare molte ipotesi: alcune, molto interessanti, le troviamo in un recente articolo di Andrew Samuels) (29), ma come indice della feconda potenzialità dalla psicologia junghiana.

Lapis invisitabilis e idioma

 Jung definisce il Sé «fondamento e origine della personalità individuale» che «abbraccia il passato, il presente e il futuro» (30). Per Bollas l'idioma umano è l'essenza di ogni persona, «quel nucleo unico di ciascuno, una rappresentazione dell'essere che è come un germe che, in circostanze favorevoli, può svilupparsi e articolarsi» (31). Egli definisce questa conoscenza come non pensabile e la riconduce al senso del proprio particolare stile o estetica o schema di autorganizzazione: una sorta di «firma», appunto il nostro «idioma». Il senso di Sé è radicato nel temperamento («ogni neonato nasce con una personalità») (32), e al tempo stesso costruito sulle primissime interazioni tra il neonato e chi lo accudisce (poiché non esiste un «ambiente di holding» puramente genetico). Qualcosa insomma molto più facile da sperimentare che compagno prima della nascita» e che si nasconde dietro parole come «vocazione», «chiamata», «carattere». «Il paradigma oggi dominante per interpretare le vite umane individuali, e cioè il gioco reciproco tra genetica e ambiente, omette una cosa essenziale: quella particolarità che dentro di noi chiamiamo 'me'. Se accetto l'idea di essere l'effetto di un impercettibile palleggio tra forze ereditarie e forze sociali, io mi riduco a mero risultato. Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o omesso di fare... tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima» (p. 20). «La teoria della ghianda dice che io e voi e chiunque altro siamo venuti al mondo con un'immagine che ci definisce... La teoria della ghianda si propone come una psicologia dell'infanzia. Afferma con forza l'intrinseca unicità del bambino, il suo essere portatore di un destino...» (p. 30). (24) Donaid Winnicott (1965), Thè maturational process and thè facilitating environment, New York, International University Press, p. 46. (25)H.C.Curtis(1985),«Clinical perspectives on self psy-chology», Psychoanalytic Quarterly, 7, 54, pp. 339-378. (26) Cari Gustav Jung (1944), Psicologia e alchimia, Opere, Voi. 12, pp. 186 e 225. Tutte le citazioni di Jung contenute in questo articolo (salvo diversa indicazione) sono tratte dalle Opere pubblicate da Boringhieri. Citerò pertanto, oltre ai titoli, solo il numero del volume e le pagine di riferimento. (27) Christopher Bollas è uno dei più affascinanti e originali autori contemporanei in campo psicoanalitico. La sua opera continua e sviluppa il lavoro del middle group e il 83 pensiero di Winnicott. I suoi lavori principali, tutti pubblicati in italiano, sono: L'ombra dell'oggetto^ 987), op. cit.; Forze del destino (1989), Roma, Boria, 1992; Essere un carattere (1992), Roma, Boria, 1995; Craking Up. Il lavoro dell'inconscio (1995), op. cit. (28) Mario Jacoby (1981), «Reflections on Heinz Kohut's concepì of narcissism», Journai of Analytical Psychology, 26, pp. 19-32. Mara Sidoli (1996), «Archetypal patterns, mental representations, and replicative processes in infancy», Thè Psychoanalytic Review, 83, 4, pp. 491 -508. Verena Kast (1995), «La mia identità junghiana, come definirla?», Studi Junghiani, 1, pp. 17-28. (29) Andrew Samueis (1996), «Jung's return from banishment», Thè Psychoanalytic Review, 83, 4, pp. 469-490. (30) Cari Gustav Jung (1955/1956), Mysterium Coniunctionis, Voi. 14, II, pp. 453-454. (31) Christopher Bollas (1989), Forze del destino, op. cit., p. 226. (32) Christopher Bollas (1993), «Interview», Psychoanalytic Dialogues, 3, 4. (33) Christopher Bollas (1987), L'ombra dell'oggetto, op. cit., p. 48. (34) Cari Gustav Jung (1917/1943), Psicologia dell'inconscio, Voi. 7, pp. 111- 112. (35) Cari Gustav Jung (1944), Psicologia e Alchimia, Voi. 12, pp. 185-187 e 225-227. da descrivere. «L'oggetto» - scrive Bollas - «getta la sua ombra sul soggetto. In modo molto simile il bambino vive la madre come un processo che trasforma il suo ambiente interno ed esterno, ma non sa che questa trasformazione è parzialmente innescata dalla madre. L'esperienza dell'oggetto precede la conoscenza dell'oggetto... il sacro precede il materno... L'esperienza non può essere collegata precisamente a un oggetto discreto, ma viene invece collegata alla nozione di cosa dovrebbe essere l'oggetto che si pensa favorisca l'evento: terribile e sacro» (33). Il Sé di Bollas è germinale, impensabile, autorganizzantesi ed essenziale al processo di realizzazione individuale. È evidente l'eredità winnicottiana del concetto di vero Sé, riferito al potenziale ereditario con cui ciascuno di noi incomincia la vita. Così come è implicita la nozione, ancora winnicottiana, di ambiente favorevole di sostegno. Ma evidente è anche la parentela con alcune osservazioni di Jung sul Sé come attuazione e dispiegamento dell'originaria totalità potenziale. «La funzione trascendente» - scrive infatti Jung - «non procede senza meta, ma conduce alla rivelazione dell'uomo essenziale... Il processo ha per senso e meta la realizzazione della personalità originariamente contenuta nel germe embrionale... Questo processo è stato da me definito processo d'individuazione» (34). Jung paragona il Sé al lapis alchemico, al mandala lamaista e tantrista, alla pillola d'oro taoista, al germe d'oro induista. Gli attribuisce qualità numinosa e perciò terrificante, e carattere di entelechia psichica: una sorta di «atomo nucleare, della cui struttura più intima e del cui ultimo significato non sappiamo nulla», «punto dove la psiche diventa inconoscibile perché è lì che si fonde col corpo» (interpretazione materialistica) e «spirito che vivifica l'anima e il corpo» (interpretazione spiritualistica), «nucleo della psiche oggettiva», «immagine della meta che il processo psichico 'finalizzato' si pone apparentemente da solo, senza esservi indotto da una suggestione esterna» (35).

 Archetipo e genere primario

 Jung concepisce le immagini archetipiche come rappresentazioni mentali degli istinti, costanti antropologiche 84 dell'esperienza, della rappresentazione e del comportamento. Si tratta di modelli di base dell'esistenza, attivi in ogni individuo. Salvo che in situazioni eccezionali, essi vengono mediati dai complessi e da questi soggettivizzati e connessi con la storia individuale. Bollas si concentra sulla lettura relazionale madre-bambino, e non affronta il piano della metafora collettiva a cui Jung grandiosamente approda; ma quando tratta lo sviluppo del Sé dal punto di vista del «conosciuto non pensato» e della scelta idiomatica degli oggetti come momento di esperienza individuativa, sentiamo la presenza di un'intuizione junghiana. Se per Jung gli archetipi «possono essere concepiti come effetto e sedimentazione di esperienze verificatesi; ma al tempo stesso risultano anche essere i fattori che causano tali esperienze» (36), per Bollas i generi primari sono protonucle azioni ereditarie dell'idioma del bambino, «fattori nascenti specifici dell'idioma che favoriscono coesioni estetiche precoci del mondo degli oggetti» e che a loro volta «si incontrano con un'altra intelligenza organizzatrice: la logica di cura dei genitori». Il problema, prosegue, è se «l'idioma del bambino può dare origine a cure materne e paterne generatrici in modo che l'articolazione della soggettività usi i materiali della realtà per promuovere l'elaborazione». Cioè in modo che il bambino sia libero di promuovere un'esistenza «punteggiata da momenti ispirati di autorealizzazione che derivano dall'istinto di elaborare il Sé», istinto che Bollas definisce «la pulsione del destino» (37), concetto su cui tra poco torneremo. Quando Jung afferma che l'inconscio contiene due strati, quello personale e quello collettivo, - «lo strato personale raggiunge il suo limite nei primissimi ricordi infantili; l'inconscio collettivo invece contiene l'epoca preinfantile, cioè i residui della vita ancestrale. Mentre le immagini mnestiche dell'inconscio personale sono per così dire 'riempite', perché 'vissute', gli archetipi dell'inconscio collettivo non sono riempiti perché sono forme che l'individuo non ha vissuto personalmente» (38) - evoca una mitologia individuale che presenta punti di contatto con l'ipotesi, spinta in senso totalmente relazionale, del «conosciuto non pensato» di Bollas. In questo concetto, Bollas include infatti «qualsiasi forma di conoscenza non ancora pensata. La (36) Carl Gustav Jung (1917/1943), Psicologia dell'inconscio, op. cit., p. 96. (37) Christopher Bollas (1992), Essere un carattere, op. cit., p. 67-69. (38) Cari Gustav Jung (1917/1943), Psicologia dell'inconscio, op. cit., p. 78. conoscenza a base genetica, che costituisce il sapere istintivo, non è stata pensata. I bambini imparano le regole dell'essere e del mettersi in rapporto che vengono loro trasmesse dalla logica materna di cura, buona parte della quale non è stata trasmessa mentalmente. I bambini spesso vivono in umori o stati d'animo familiari al di là della loro comprensione, anche se sono coinvolti nell'esperienza di questo sapere. Gli psicoanalisti, ricevendo le identificazioni proiettive dei pazienti, riescono a conoscere qualcosa, e la psicoanalisi del controtransfert diventa il tentativo di pensare a questa conoscenza» (39). «L'esperienza dell'archetipo» - continua Jung - «viene spesso difesa come il più individuale e personale dei segreti, perché l'uomo che la vive si sente colpito nella più profonda intimità. È una specie di esperienza primordiale del non-lo psichico, di un'opposizione inferiore che sfida al confronto. Allora, com'è comprensibile, si cerca aiuto in paralleli, ed è fin troppo facile che l'evento originario venga forzato nel senso di rappresentazioni prese a prestito... Gli eventi inesprimibili, provocati dalla regressione nell'epoca preinfantile, non vogliono sostitutivi; vogliono assumere forma individuale nella vita e nell'opera del singolo» (40). (39) Christopher Bollas (1989), Forze del destino, op. cit., p. 225. (40) Cari Gustav Jung (1917/1943), Psicologia dell'inconscio, op. cit., p. 79.

Individuarsi

Per Jung, individuarsi significa diventare «un essere singolo e, intendendo noi per individualità la nostra più intima, ultima, incomparabile e singolare peculiarità, diventare se stessi, attuare il proprio Sé. Individuazione potrebbe dunque essere tradotto anche con 'attuazione del proprio Sé' o 'realizzazione del Sé'» (41). Analogamente, Bollas crede che ognuno di noi cominci la vita «con uno specifico ma non realizzato idioma dell'essere, e che, nel successivo corso dell'esistenza, trasformi tale idioma in sensibilità e realtà personale». Per idioma intende qui «un'estetica dell'essere, guidata da un impulso ad articolare la teoria della forma scegliendo e utilizzando oggetti nel tentativo di plasmarli» (42). Il riferimento a un'estetica dell'essere e a una teoria della forma, richiama la definizione che Jung da degli archetipi come «immagini dell'istinto», istinto da lui inteso non solo come «spinta verso l'esterno», ma anche 85 (41) Cari Gustav Jung (1928), L'Io e l'inconscio, Voi. 7, p. 173. (42) Christopher Bollas (1995), Craking Up. Il lavoro dell'inconscio, op. cit., p. 113. 86 come fattore che partecipa alla «rappresentazione delle forme» (43). Paragonando le immagini dell'inconscio a «visioni artistiche» (44), Jung annuncia così l'idea di una base poetica della mente. Non a caso Bollas, per descrivere «quell'inconscio che 'vive' in noi», ricorre ai poeti. Ferdinando Pessoa: «Sento di vivere vite aliene, dentro di me, in modo incompleto, come se la mia anima fosse in comune con tutti gli esseri umani in modo incompleto, mediante una somma di nonio, sintetizzati poi in un 'io'». Thomas S. Eliot: «oscuri embrioni... qualcosa che germina [nel poeta] per la quale [il poeta] deve trovare le parole». Rene Char: il «reale increato». Queste strutture psichiche (che Bollas chiama «generi», per enfatizzarne l'aspetto generativo) non possono essere trovate nel mondo esterno e non posseggono realtà materiale, «sebbene si possa sostenere che quadri, poesie, composizioni musicali e altre forme d'arte rappresentino questi processi interni. Ma queste gravita psichiche sono profondamente reali per noi» (45). Non molto diversamente, Jung parla di presa di coscienza di un nuovo centro, cioè di un «centro del non-lo», come centro potenziale della personalità non identico all'lo (cioè esterno all'lo, ma interno alla psiche), che avvia alla presa di coscienza sia della delimitazione dell'Io che dell'esistenza di contenuti psichici altri rispetto all'lo stesso. «Proprio come l'Io è un'esperienza di me stesso» - scrive - «così il Sé è un'esperienza del mio lo, vissuta però non più nella forma di un lo più vasto... ma in forma di un non-lo» (46). «L'Io sta al Sé come il patiens all'agens, o come l'oggetto al soggetto, perché i fattori determinanti provenienti dal Sé circondano l'Io e perciò lo sovrastano. Come l'inconscio, il Sé è l'esistente a priori dal quale promana l'Io. Esso preforma, per così dire, l'Io. Non io creo me stesso, ma piuttosto io accado a me stesso» (47). La cornice interpersonale che Bollas offre alla formazione del Sé (la necessità dell'altro nella conoscenza individuale del Sé) aggiunge spessore clinico a ciò che Jung affida al potere intrinseco dei simboli di trasformazione e all'utopia individuativa. Un adolescente in cura con Bollas disse che non aveva un Sé e che «se chiedeva a se stesso cosa fosse il Sé, riceveva come unica risposta la sensazione di (43) Jung parla. Interviste e incontri (1977), a cura di W. McGuire e R. F. C. Hull, Milano, Adelphi, 1995, p. 509. (44) Cari Gustav Jung (1928), L'Io e l'inconscio, op. cit., p. 182. (45) Christopher Bollas (1992), Essere un carattere, op. cit., p. 85. Per le citazioni poetiche che seguono rimando al testo di Bollas. (46) Cari Gustav Jung (1939), // mondo sognante dell'India, Voi. 10,1, p. 553. Vedi anche Paolo Francesco Pieri (1995), «'Sono io, questo?', ovvero il Selbst nel pensiero di Jung», Atque, 11, pp. 73-91. (47) Cari Gustav Jung (1942), // simbolo della trasformazione nella messa, Voi. 11, p. 249. 87 (48) Christopher Bollas (1995), Craking Up. Il lavoro dell'inconscio, op. cit., pp. 117-118 e 126. (49) Ma anche il Sé kohutianamente inteso come «nucleo auto-propulsore, autodiretto e di autosostegno, che fornisce uno scopo centrale alla personalità e da un senso alla vita». Vedi Heinz Kohut (1977), La guarigione del Sé, op. cit., p. 131. (50) Christopher Bollas (1989), Forze del destino, op. cit., p. 227. un orribile senso di vuoto». Chiese a Bollas di dirgli che cos'era il Sé: «Potevo forse definirlo? Il tormento di quel giovane era così profondo che sentii la necessità di rispon-dergli». Ma tutto quel che Bollas riuscì a pensare era quanto fosse inafferrabile quella parola; non capiva come potesse essere così angosciato dal significato della parola Sé un ragazzo che non aveva affatto la percezione del proprio Sé. Il silenzio intensificava l'angoscia... «Allora dissi che io avevo esperienza del suo Sé... Intendevo dire che avevo avuto un'esperienza interna di lui, diversa da quella avuta con gli altri pazienti: sulla base di questa organizzazione idiomatica che avevo ritrovato dentro me stesso, potevo dire con certezza che egli ne era la causa e che quindi aveva un Sé che mi toccava» (48).

 Pulsione del destino

 Individuazione, archetipo del Sé e idioma (49) sono concezioni diverse ispirate a modelli diversi, ma contengono sufficienti parallelismi per consentirmi una lettura junghiana del concetto di Bollas di «pulsione del destino», che poco sopra ho lasciato in sospeso. La pulsione del destino si riferisce alla spinta presente in ciascuno di noi «ad articolare ed elaborare il proprio idioma scegliendo e usando oggetti. È una forma dell'istinto di vita in cui il soggetto cerca di accedere al proprio vero essere attraverso un'esperienza che libera questo potenziale» (50). Per distinguere tra fato e destino, Bollas ricorre a quel passo dell'Eneide in cui Giunone invita il fato a intervenire per suo conto contro Enea, ma vede fallire i suoi desideri perché il destino di Enea non permette un intervento simile. Che c'entra questo con la psicoanalisi? «La persona malata che viene in analisi perché ha sintomi nevrotici, o problemi di carattere, o idee e dolori psicotici, può essere descritta come una persona colpita dal fato. Cioè soffre di qualcosa che non può specificare, che ha un certo potere sulla sua vita e che riesce a interferire seriamente con la sua capacità di lavorare, di provare piacere, o di formare rapporti intimi. E potremmo dire che il sintomo classico è una specie di oracolo». [Mi si affacciano alla mente l'immagine junghiana degli dei che diventano malattie, e il 88 passo in cui Jung attribuisce all'effetto delle immagini inconsce «qualcosa di fatale. Forse, chissà!, queste immagini eterne sono ciò che si chiama destino» (51), N.d.A.]. «Una volta che lo si è capito», - continua Bollas - «districato mediante le associazioni e la scoperta del significato latente, si può essere liberi dalla maledizione favorita dal fatto che non la si conosceva. Ma insieme al fato, la persona porta con sé in analisi un destino che può essere solo un potenziale, la cui attualizzazione dipende non tanto dalla scoperta della sintomatologia oracolare del sogno, quanto dal movimento nel futuro mediante l'uso dell'oggetto, uno sviluppo che gli psicoanalisti definiscono transfert» (52). Bollas usa il concetto di fato per descrivere il senso di essere determinato dalla storia della propria vita, cioè una condizione in cui l'esperienza vissuta non ha incontrato ne facilitato il vero Sé. Chi si sente colpito dal fato non ha sperimentato la realtà come favorevole alla «soddisfazione del suo idioma interno» (53). Possiamo collegare il senso del fato descritto da Bollas ai concetti winnicottiani di falso Sé e di vita reattiva. Al contrario, la pulsione del destino serve ad affrontare l'evoluzione del vero Sé, al punto che si potrebbe chiedere al soggetto se sta o non sta compiendo il proprio destino. Ne L'Io e l'inconscio, Jung descrive gli ostacoli allo sviluppo individuativo (in particolare l'identificazione con la psiche collettiva e l'inflazione psichica) come «forme di alienazione del Sé, di rinuncia al Sé, a favore di una parte da sostenere o di un significato immaginario. Nel primo caso, il Sé passa in seconda linea di fronte al riconoscimento sociale; nel secondo, di fronte al significato autosuggestivo di un'immagine primordiale». E continua: «non bisogna attribuire all'inconscio una psicologia cosciente. La sua mentalità è istintiva, non ha funzioni differenziate; non pensa così come noi intendiamo il 'pensare'. Esso crea unicamente un'immagine che risponde alla situazione cosciente, un'immagine che contiene sia idea che sentimento ed è tutto fuor che un prodotto di riflessione razionalistica» (54). Quando Bollas riconosce l'esistenza di una «spinta a costituire il proprio Sé» sembra riprendere l'idea junghiana (51) Cari Gustav Jung (1917/1943), Psicologia dell'inconscio, op. cit., p. 111. (52) Christopher Bollas (1989), Forze del destino, op. cit., p. 41. (53) Ibidem. (54) Cari Gustav Jung (1928), L'Io e l'inconscio, op. cit, pp. 173 e 182. 89 (55) Christopher Bollas (1989), Forze del destino, op. cit., p. 42. (56) «Perché, senza nemmeno rendercene conto, noi consacriamo il mondo con la nostra soggettività, investiamo persone, luoghi, oggetti e fatti di un significato idiomatico. Nell'abitare questo nostro mondo, ci muoviamo lentamente in un campo di oggetti gravidi che contribuiscono alla densa qualità psichica che costituisce l'esperienza del Sé. Molto spesso scegliamo e usiamo gli oggetti in modi che inconsciamente porteranno alla luce queste tracce; anzi lo facciamo più volte al giorno, come pensando a noi stessi, evocando costellazioni di esperienze interiori. Allo stesso tempo però", le persone, le cose e i fatti del nostro mondo esistono semplicemente e, in quei casi, siamo chiamati a diverse forme di essere per caso. Così oscilliamo tra il pensare noi stessi attraverso la scelta di oggetti che favoriscono le nostre esperienze interiori e l'essere pensati, per così dire, dall'ambiente che agisce sul Sé. In questo senso, quindi, gli oggetti del nostro mondo sono forse potenziali di trasformazione... A mio parere la psicoanalisi... può essere arricchita se noi elaboriamo una filosofia dell'integrità degli oggetti che ci consenta di esaminare quali forme scegliamo per le trame psichiche del Sé». Christopher Bollas (1992), Essere un carattere, del Sé come archetipo-principio ordinatore. Quando afferma che «la pulsione del destino è la forza immanente all'idioma del soggetto che tenta di realizzare il proprio potenziale di elaborazione personale» e che «mediante gli oggetti reali e mentali questo idioma cerca di articolarsi 'imbrigliando' l'esperienza» (55), ci fa respirare l'atmosfera junghiana del concetto di individuazione. Ciò a cui Bollas sembra prestare più attenzione di Jung è l'importanza dell'attunement analitico con gli oggetti idiomatici del paziente (le sue musiche, le sue letture, i suoi luoghi, il tipo di amanti) e in definitiva con l'idioma dell'analizzato (56). Come Jung, anche Bollas segnala i rischi dell'identificazione con il collettivo, sottolinea l'importanza dell'accettazione della propria diversità, pone l'accento sul significato individuativo della seconda metà della vita: «l'idioma e la sua articolazione valorizzano la differenza. Il percorso gratificante del falso Sé valorizza la convenzione... È comprensibile che ogni individuo sia tentato di cancellare il proprio idioma e di cercare rifugio nelle convenzioni [rischio che Jung descrive come «il Sé che passa in seconda linea di fronte al riconoscimento sociale», N.d.A.]. Anche se una persona riacquisirà continuamente coscienza della propria differenza idiomatica (attraverso i sogni, i desideri sessuali, le scelte estetiche), aderirà tuttavia a uno stato di cose che porterà il Sé sui binari delle convenzioni e cercherà un falso Sé ^'«alienazione del Sé» di cui parla Jung, N.d.A.], che sostituisca il vero Sé. Queste persone, giunte alla mezza età, dovranno pagare il prezzo di non sapere che cosa significhi essere se stessi e potranno sentire molta rabbia per la propria condizione. Ma la vita vissuta più o meno secondo la disseminazione inconscia dell'idioma del soggetto non è poi così gloriosa [ecco il rischio autosuggestivo delle immagine primordiali descritte da Jung, N.d.A.]: la complessità raramente è rassicurante» (57).

Lo spirito del luogo

 L'idioma che si fa Sé è per Bollas un genius loci, una presenza inferiore di cui abbiamo fiducia «perché ognuno di noi è consapevole di avere un mondo interno intelligentemente pervaso da un'atmosfera unica e irripetibile, che 90 consiste in un'estetica particolare, la quale crea dentro di noi il nostro 'spirito del luogo'... Anche se non conosciamo con precisione il carattere del nostro Sé, perché apparteniamo a esso e manchiamo della distanza necessaria per farne esperienza, ciononostante sappiamo che lo 'spirito del luogo' costituisce il nostro Sé» (58). Anche per Jung non c'è speranza di «raggiungere una consapevolezza anche solo approssimativa del Sé, giacché, per quante siano le cose di cui noi possiamo acquistare coscienza, resterà sempre una quantità indeterminata e indeterminabile di inconscio, che appartiene anch'essa alla totalità del Sé. E così il Sé resterà sempre una grandezza a noi sovrastante» (59). Ciò che possiamo fare, sostiene Bollas, è afferrare una particella di sensazione che ci garantisce di provare una fiducia che ha un che di religioso, e ci permette di lanciare la parola Sé nel linguaggio, «accordandole una carica psichica particolare... La percezione di una logica interna, il moto del desiderio, la disseminazione dei nuclei di interesse danno la sensazione di essere investiti da una sorta di intelligenza, che ci guida nell'esistenza. Se ne colgono gli effetti ed è proprio tramite la consapevolezza introspettiva che si percepisce lo 'spirito del luogo', anche se non se ne conosce la natura... L'idea di un dio che vive all'interno di ciascuno di noi, curiosamente equivale a una restituzione inconscia della proiezione: Dio, in quanto intelligenza che tutto dispone, pervade la nostra esistenza e ci lascia con la sensazione di qualcosa che ci trascende e si cura di noi» (60). Il Sé di Bollas assume qui anche più di una sfumatura numinosa che ci riporta all'idea junghiana del deus absconditus e all'interpretazione della religione come proiezione della divinità interiore. «A volte» - continua Bollas - «il Sé sente una sorta di presenza trascendentale, un'entità che concede l'autorizzazione, superiore alla somma di quelle esperienze del Sé che ben conosciamo, ma che non possiamo cogliere come cosa-in-sé. È questo l'inconscio? In un certo senso, ma non del tutto. Inconscio e coscienza hanno indubbiamente un ruolo strumentale nella creazione del senso del Sé; ma l'inconscio è forse ancora più vitale, poiché la costruzione psichica del Sé si op. cit, pp. 7-8. In ambito post-junghiano, è stato James Hillman, col famoso invito ad «aprire la finestra della stanza psicoanalitica», a ricordarci l'importanza in analisi delle torme intrinseche degli oggetti. (57) Christopher Bollas (1995), Craking Up. Il lavoro dell'inconscio, op. cit., pp. 73-75. (58) Ibidem, p. 122. (59) Cari Gustav Jung (1928), L'Io e l'inconscio, op. cit., p. 177. (60) Christopher Bollas (1995), Craking Up. Il lavoro dell'inconscio, op. cit., pp. 122-123. 91 (61) Ibidem. (62) «Dalla tensione psichica interna creata dalla logica del nostro essere, dalla sensazione degli oggetti interni che incontriamo nella nostra vita, e dal complesso tessuto dell'esperienza del Sé, creiamo un oggetto nuovo: il Sé, una poesia della composizione del tutto». Christopher Bollas (1995), op.cit.,p. 131. (63) Jung parla. Interviste e incontri (1977, a cura di William McGuire e R. F. C. Hull), op. cit, p. 409. (64) Nina Coltart (1996), «Buddhism and psychoanaiysis revisited», in Thè baby and thè bathwater, Londra, Karnac Books. realizza grazie a processi mentali inconsci... L'attività inconscia da origine a un'atmosfera all'interno dell'individuo, che è sentita quando esiste, quando manca irrimediabilmente, quando sembra essere svanita» (61). Ancora con i poeti, Bollas giunge a definire il Sé «la forma di quanto non conosciamo» (T. S. Eliot), ma anche la «poesia della composizione del tutto» (W. Stevens) (62). Per Jung, il sacrificium intellectus e l'Anima Mundi. La religione del Sé Lo studio delle religioni e delle filosofie orientali ha svolto un ruolo fondamentale nella formazione del concetto junghiano di Sé e nel suo riconoscimento simbolico nel mandala come espressione sia della divinità sia del Sé. «Psicologicamente i due termini sono strettamente collegati: il che non significa che io creda che Dio è il Sé o il Sé sia Dio. Affermo semplicemente che tra di essi esiste una relazione psicologica... Il mandala è... l'archetipo dell'ordine inferiore e viene sempre usato in questo senso, o per dare un ordine ai moltissimi aspetti dell'universo, come in uno schema cosmico, o per rappresentare uno schema della nostra psiche. Esprime il fatto che esiste un centro e una periferia, che cerca di abbracciare il tutto... Denota un centro che non coincide con l'Io bensì con la totalità che io chiamo Sé» (63). Nella meditazione buddhista, la mente viene esplorata come un processo, in cui l'identità del Sé apparentemente sostanziale si rivela transitoria e illusoria. Laddove l'ideale buddhista implica però l'abbandono del contenuto e la resa al processo, quello psicoanalitico implica una dialettica tra l'esplorazione e l'immersione nel contenuto e la libertà di muoversi al di là di esso nel flusso dell'esperienza. Analogie più o meno esplicite tra alcune concezioni psicoanalitiche del Sé e la concezione della mente sviluppata dalla filosofia e dalla meditazione orientale non compaiono solo negli scritti di Bollas e, naturalmente, di Jung. In una recente raccolta di saggi, l'analista inglese Nina Coltart rilegge la psicoanalisi alla luce degli insegnamenti buddhisti (64). Ancora Bollas osserva come Winnicott sia riuscito a inserire, nella teoria psicoanalitica, un'esperienza ben nota alle 92 religioni orientali: «ci sono momenti, in analisi, in cui i pazienti sono totalmente immersi nell'insight: hanno varcato la soglia dell'esperienza interna priva di linguaggio e si trovano con il proprio Sé, persi in esso, continuamente sperimentandolo, vaganti nel suo tessuto multiforme. La parola 'Sé' si adatta perfettamente a simili momenti: essa definisce una sorta di essenziale inafferrabilità, un'organizzazione esistenziale in realtà inspiegabile, che non può venire rappresentata ne essere localizzata... I' 'lo' si frantuma e si dissolve, la coerenza della storia del Sé è considerata una difesa e la via alla conoscenza del Sé può essere raggiunta solo dimenticandosi di esso... temporaneamente» (65). Ernst Bernhard fu molto affascinato da l'Abbandono alla Provvidenza Divina, una raccolta di lettere scritte dal gesuita settecentesco Jean-Pierre de Caussade alle religiose di Nancy. Lo regalava agli amici con questa dedica: «Quanto più semplice, tanto meglio». Nel libro di de Caussade, Bernhard trova una dimensione psichica che, abbandonandosi all'esperienza, partecipa del naturale e del sovrannaturale, permettendogli di riconoscere sorprendenti parallelismi tra la psicologia e alcune manifestazioni religiose. In particolare, l'atteggiamento religioso dell'abbandono si awicina a quello del Bhakti-Yoga indiano e del Taoismo cinese, e infine a quello dell'uomo moderno nel processo di individuazione descritto da Jung. La meta ultima di questo processo è la trasformazione di quell'io primitivo che vuole ascrivere tutto a se stesso. «Questa trasformazione» - scrive Bernhard - «scaturisce dall'integrazione della coscienza mediante il costante operare che compie, attraverso l'esperienza vissuta nella psiche e nel destino degli esseri umani, il fino allora inconscio Sé, o self, o selbst o comunque lo si voglia denominare: Imago Divina, Dio, Cristo, Provvidenza Divina, Atman, Purusha, Tao. Nel Libro dei Mutamenti, I'I King, questa trasformazione è al cuore della saggezza cinese e viene così definita: 'II benigno lo scopre e lo chiama benigno. Il saggio lo scopre e lo chiama saggio. L'uomo inconscio vive di lui giorno per giorno e non se ne accorge'» (66). «Nei secoli passati» - scrive Bollas - «il significante che occupava il posto del Sé era molto probabilmente la parola (65) Christopher Bollas (1995), Craking Up. Il lavoro dell'inconscio, op. cit., p. 117. (66) Jean Pierre de Caussade, Abbandono alla Provvidenza Divina, Roma, Astrolabio, 1947, p. 11. Vedi anche Bianca Garufi (1996), «Una testimonianza», Rivista di Psicologia Analitica, nuova serie n. 2 (54/96), pp. 69-84. 93 (67) Christopher Bollas (1995), Craking Up. Il lavoro dell'inconscio, op. cit., pp. 130-131. (68) Ibidem, pp. 113-115. 'Dio' e soddisfaceva il nostro bisogno di circoscrivere l'ignoto; il concetto protestante di un Dio che vive dentro di noi si collega al concetto di Sé, nella misura in cui è un'entità che vive in noi e nello stesso tempo ci trascende» (67). La teoria freudiana dell'Es potrebbe così essere letta come un tentativo di teorizzare l'esistenza di un complesso interno che modella l'essere, al quale, riprendendo Groddeck, Freud diede nome das Es per sottolineare «la forza impersonale che permea la logica umana». Winnicott fece un ulteriore tentativo in questa direziono con l'idea del vero Sé, collegata alla teoria freudiana delle pulsioni, ma anche rappresentativa di un «nucleo del Sé» del soggetto, cioè di un potenziale ereditato, che indica la propria presenza gestuale tramite le azioni spontanee. Bollas osserva come entrambe le teorie ci permettano «di rivolgerci all'impersonale (it) che è in noi», e giunge alla conclusione che «l'atto stesso di sentire il Sé è una facoltà aperta allo sviluppo che può essere incrementata». Se con il termine «senso di Sé» comunemente intendiamo il senso di sé che ciascuno di noi ha, Bollas prova a darne una definizione leggermente diversa: «si tratta della capacità di percepire il Sé. Un senso separato... una potenzialità in ogni individuo, che, nato con questa facoltà, riuscirà poi a svilupparla in misura più o meno ampia» (68). Non tanto insomma lo scrigno inferiore dell'identità, idealisticamente nutrito di fantasie teleologiche, ma principio formativo, fonte energetica e di autoregolazione che, arrendendosi all'antico enigma dei molti nell'uno e dell'uno nei molti, non può che avere configurazioni relazionali.

 

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